Mentre scrivo queste brevi note a Roma si sta concludendo il Sinodo dei Vescovi, cioè una assemblea speciale dedicata alla situazione pastorale, umana e ambientale di quell’immenso territorio che è l’Amazzonia. Parliamo di un’area che abbraccia più della metà del Brasile e tocca diversi altri Paesi dell’America del sud. Vi abita una popolazione di circa 34 milioni di abitanti, di cui oltre tre milioni sono indigeni appartenenti a più di 390 etnie.

La Chiesa si sente responsabile della evangelizzazione di quelle popolazioni, specie degli indios, spesso dimenticati e senza la prospettiva di un avvenire sereno, anche a causa dello sfruttamento selvaggio della foresta amazzonica. Per questo i Vescovi convocati stanno riflettendo da un lato sulla emarginazione sociale, economica, culturale e religiosa delle popolazioni di quelle terre, dall’altro sulla crisi ecologica di un’area che rappresenta una immensa risorsa del pianeta.

Ma perché un evento come il Sinodo per l’Amazzonia dovrebbe interessare e intrigare anche noi cattolici del “vecchio mondo”? Non ci sono problemi più urgenti da affrontare come la scristianizzazione sempre più avanzata dei nostri territori, l’abbandono della pratica religiosa dei più giovani, la difficile convivenza con popolazioni appartenenti ad altre esperienze religiose a seguito del fenomeno migratorio degli ultimi decenni?

In realtà, il Sinodo per l’Amazzonia ci parla di un mondo di frontiera, certo, ma che può illuminare il nostro modo di essere Chiesa Cattolica, cioè universale, impossibilitata a chiudersi a riccio sul proprio ombelico e sulle proprie problematiche. Ci parla di una periferia del mondo che ha qualcosa da dire a tutto il mondo. Amazzonia, terra lontana solo sulle mappe, dalla cui sopravvivenza noi tutti dipendiamo per respirare. E non solo per l’ossigeno che produce, ma anche nel riscoprire e vivere relazioni nuove, nell’ottica di una ecologia integrale.

Il Sinodo per l’Amazzonia potrà insegnare molto anche alle nostre chiese antiche (e talvolta anche vecchie) sia dal punto di vista del contenuto, sia del metodo. Anzitutto del metodo: questo Sinodo è stato preparato attraverso un coinvolgimento ed un ascolto capillare che ha riguardato migliaia di persone. A testimonianza di quella che papa Francesco chiama “conversione sinodale”, cioè un modo di vivere la chiesa nella logica di un “camminare insieme”.

Sul piano dei contenuti ciò che è in gioco non è solo una questione regionale, ma il destino ecologico dell’intero pianeta, oltre che la dignità e i diritti di coloro che vi abitano, specialmente dei popoli indigeni. Popoli oggetto di sfruttamento e violenza che, dopo avere custodito per millenni l’equilibrio ecologico di quelle terre, ora sono vittime della sconsiderata ricerca di petrolio, gas, legno, oro, … da parte di attori economici esterni al territorio.

Ma il Sinodo non si è accontentato di ascoltare il grido della terra e dei poveri: ha  voluto riflettere su come la Chiesa può e deve assumere un volto amazzonico e svolgere un ruolo profetico. Una Chiesa capace di riconoscere che in tutte le culture sono presenti quelli che i padri apostolici chiamavano “semi del Verbo”, cioè elementi positivi di preparazione al Vangelo di Gesù. Una Chiesa capace di vivere una reale “inculturazione” cioè di dire e celebrare la fede cristiana attingendo alla sensibilità di ogni tradizione culturale. Una Chiesa profetica che fa propria l’opzione preferenziale per e con i poveri, e per la cura del creato.

Don Roberto Davanzo

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