L'11 Febbraio si celebra la Giornata del Malato. Pubblichiamo l'intervista a don Donato, cappellano dell'Ospedale di Sesto, apparsa sul notiziario della Parrocchia Santa Maria Nascente e B.Mazzucconi di Casina Gatti.
Come vivi la tua vocazione sacerdotale con un camice addosso?
Ogni giorno passo dal camice che il sacerdote usa nella liturgia a quello ospedaliero: vi è una profonda continuità tra i due, perché entrambi mi ricordano che il Signore mi chiama a servire i fratelli, in particolare oggi nel ministero della consolazione dei sofferenti.
Dal tuo punto di vista cosa manca oggi e cosa è più urgente nella cura del malato?
Mi pare importante come primo aspetto non frammentare la cura del malato (offrendo cure sempre più specialistiche ma che guardano solo a un frammento della persona, scollegato da tutto il resto), ma tenere conto della persona tutta intera, del suo contesto familiare e sociale; secondo non ridurre il “prendersi cura” soltanto al “dare delle cure”, ai gesti tecnici. Anche quando non si può più curare siamo chiamati a prenderci cura dell’uomo sofferente!
Quali i punti di forza e quali deboli nell’attuale struttura ospedaliera nella cura spirituale del paziente?
Parto da un esempio. Quando a un paziente viene diagnosticato un tumore va accompagnato non solo verso un processo di cure mediche, ma anche nell’affrontare la domanda “Che ne sarà di me, del mio progetto di vita, della mia famiglia?”; domanda che inevitabilmente viene fuori.
La cura spirituale del paziente dovrebbe essere parte integrante del complessivo processo di cura, ed è più ampia del solo bisogno religioso (preghiera e sacramenti), perché intercetta la domanda di senso sulla propria vita che ogni essere umano ha, indipendentemente dal suo essere credente o meno. Su questo aspetto attualmente in Italia siamo ancora ai nastri di partenza.
Quali pesantezze hai riscontrato in questi anni di ministero tra i malati? E quali gioie? Raccontaci qualche episodio che particolarmente ti ha particolarmente colpito nella tua vita in ospedale.
Le fatiche come si può immaginare non sono poche e di vario tipo: dalle burocrazie del mondo ospedaliero che rallentano, alla fatica psicologica di essere h24 a contatto con la malattia e con la morte che mettono in crisi (salutare) anche la tua vita personale; poi la fatica spirituale dell’essere chiamato ad annunciare la speranza che nasce dalla fede anche dove umanamente c’è solo disperazione. Ma è una bella sfida!
La gioia più grande invece è vedere la grazia di Dio all’opera nel cuore delle persone che incontro, la loro fede, la loro speranza, i cammini di conversione che nascono!
Un esempio su tutti: un sabato sera di ottobre mi chiamano in medicina per un giovane ragazzo cinese, in fin di vita per un tumore, che ha chiesto il sacerdote. Lui è a letto incosciente. Ci sono anche la mamma e la moglie, venute ad assisterlo nelle ultime ore della sua vita. Parlano pochissimo l’italiano, mi ringraziano di essere venuto, e mi indicano il Crocifisso appeso alla parete della stanza, facendomi capire che nei giorni della sua malattia ha pregato tanto Gesù. “Gesù salva mio figlio”, continua a ripetere la mamma tra le lacrime e la disperazione. Lo battezzo poco dopo, portando con la mia mano avvolta nel guanto di lattice qualche goccia d’acqua sulla sua fronte, attingendola direttamente dal lavandino della stanza. “Li Rui Gabriele, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. La mamma e la moglie sono commosse: alle lacrime di dolore si mischiano ora lacrime di gioia. E sono invito per me a riconoscere che la redenzione vale di più della guarigione. Nonostante Li Rui Gabriele morirà quella stessa notte, la richiesta della madre è stata ascoltata: Gesù ha salvato suo figlio. Ancora una volta la grazia di Dio mi aspettava tra i letti del mio ospedale.
don Donato