25 luglio 2017 - Settimana News
La fortuna di avere avuto dei maestri: è stato il mio pensiero alla notizia della morte di Giovanni Bianchi (19 agosto 1939 – 24 luglio 2017). Presidente delle ACLI (1987-1994), deputato (1994-2005), animatore instancabile del dibattito civile (Circoli Dossetti, Centro studi problemi internazionali, Associazione nazionale partigiani cattolici): tutto vero e ben raccontato nei giornali di questi giorni. Ma il mio ricordo precede queste date e si fissa su elementi meno noti: il suo arrivo come professore, le visite alla sua casa, l’incontro in Parlamento.
Intellettuale ed educatore
Nel Liceo Leone Dehon (Monza, anni 1967-1969) mancava un insegnante di storia. Arrivò in classe Giovanni Bianchi. Sapevamo che veniva dall’Università Cattolica e che insegnava nei licei, ma niente di più. Posò in terra una borsa pesante e un po’ sformata. Si sedette e incominciò a disporre con ordine i testi sulla cattedra. Gesti lenti e silenzio assoluto. Nessun gesto seduttivo o autoritario. Dopo alcuni minuti cominciò la lezione con un taglio inusuale.
Ricostruiva la storia, ma manteneva gli occhi costantemente aperti sui processi sociali in atto e mostrava una conoscenza dei contesti internazionali fuori del comune. Pur abilitato per l’insegnamento di storia e filosofia, si era laureato in scienze politiche con una tesi sui paesi afro-asiatici.
Cominciò una relazione ben più ampia del puro insegnamento e coerente con le aperture educative che si respiravano nelle comunità. Continuò per un paio di decenni lasciando tracce non superficiali.
Per alcune ricerche o per particolari occasioni cominciammo a frequentare la sua casa, in piazza Petazzi 8, a Sesto San Giovanni, il cuore della «Stalingrado d’Italia». Emergeva la rara consonanza fra l’insegnante e la sua vita privata: l’austera allegria del mobilio, abituato a frequentazioni assai diverse, l’ospitalità cordiale e attenta della moglie, Silvia, l’affastellarsi di libri e delle discussioni, non interrotte dalle legittime esigenze della neo-arrivata figlia, Sara. Si capiva il legame profondo della tradizione operaia del padre, con l’appartenenza ecclesiale poco clericale (la chiesa parrocchiale era a poche decine di metri) e una fantasiosa ricerca intellettuale coltivata dentro una solidità familiare esemplare.
Il terzo ricordo è di quasi trent’anni dopo, nella stanza, con anticamera, che come segretario della Camera, Giovanni Bianchi aveva a disposizione in Parlamento. La chiacchierata si dilungò sul difficile passaggio politico del dopo-DC, sulla tradizione cattolica in politica, sugli interessi amicali comuni.
Ebbi la conferma di una percezione già sperimentata altre volte: non c’era alcun attaccamento ai luoghi e ai ruoli. Anzi, una fatica malcelata rispetto al clima romano e ai suoi riti di potere e di consociativismo.
Mi ricordava l’ascetismo dei “professorini” (Dossetti, La Pira, Lazzati ecc.) nei primi anni del dopoguerra. Una sorta di monaco catapultato fra i centri del potere politico: era già stato presidente del Partito Popolare (dopo la Democrazia Cristiana), nella direzione nazionale e si aprivano i movimenti che si concentreranno nell’Ulivo (la forma politica del centro-sinistra).
Si percepiva fin dall’inizio una singolare coincidenza fra politico, monastico e domestico che, successivamente lui declinò in pubblico in senso inverso: «eticamente credibili, professionalmente competenti, politicamente abili».
La politica come questione seria e passione per il bene comune non avrebbe motivato consensi e progetti senza un rigore virtuoso, senza una dimensione spirituale monastica capace di dire assieme la competenza professionale con la profondità spirituale e pensosa. Il principio di «non appagamento» moroteo non apriva soltanto a nuove dimensioni del politico, ma si proiettava anche sul vissuto privato: la cura degli affetti e della fede (il domestico) resistevano alla tentazione pervasiva del potere e ne garantivano la qualità dell’esercizio.
Il «post»
Con una battuta si potrebbe indicarlo come post-conciliare, post-democristiano e post-militante. Viveva il concilio con consapevole autonomia. Ne aveva interiorizzato testi e stile, riforme e tradizioni, persone ed eventi. Dal legame con G. Lazzati alla coltivazione della memoria di J. Maritain, La Pira e Sturzo, dall’amicizia con M.D. Chenu (che lo qualificò come «teologo» per la sua attenzione al lavoro e alla dimensione laicale), con D.M. Turoldo e con molti padri conciliari e vescovi, fino a figure creative come S. Quinzio, S. Weil, E. Benvenuto, G. Baget-Bozzo e, soprattutto, G. Dossetti.
La sua distanza da Comunione e liberazione era imputabile non a scelte ideologiche, quanto a sospetti in ordine alla libertà educativa e soprattutto alla sua concezione strumentale della politica che le successive vicende avrebbero confermato. Così come la sua estraneità al tradizionalismo per i suoi limiti storici e teologici. Senza tuttavia mai trasformare le distanze in censure o giudizi irrispettosi.
Legatissimo alla tradizione del cattolicesimo democratico cercava sempre che le nuove sperimentazioni politiche trovassero germi e conferme nell’intelligenza del passato, nei processi sociali e nelle dimensioni internazionali. Si è trovato a traghettare l’ispirazione cristiana in politica dal Partito Popolare alla Margherita, all’Ulivo. I valori della Costituzione, dei corpi sociali e dei legami civili dovevano trovare casa nelle nuove forme della politica.
Una piccola cerchia amicale è sempre stata attiva attorno a lui: S. Antoniazzi, B. Tomai, B. Manghi, P. Trotta. Un ruolo del tutto particolare è stato quello del card. Martini. Il ceto politico l’ha stimato; ma non è stato «uno di loro». Fra quelli più vicini: S. Mattarella, R. Prodi, G. Napolitano, M. Martinazzoli.
L’uomo e l’intellettuale non si capirebbero senza percepire la sua figura di «post-militante», un impasto di poesia, preghiera e contemplazione che trova riscontri in molti fra i suoi numerosissimi testi e libri. Il racconto, il romanzo, e soprattutto la poesia hanno rappresentato l’altra faccia del saggio politico, sociale e storico. La complessità del contemporaneo ha reso inutile la pur nobile rigidità del militante. Una iniziativa editoriale come quella di Bailamme che cumulava mistica, politica, teologia e storia è stata emblematica.
Giobbe sestese
Citando Martini e la coincidenza in ciascuno di noi di un credente con un non credente, così si esprimeva nel drammatico e solenne saluto in occasione della morte della figlia Sara (15 ottobre 2013): «Comincio dal non credente. Tutti hanno fatto la loro parte, tranne Dio che non s’è fatto vedere. Lo chiedo da padre a padre: “Dov’eri quando le dicevo ‘ce la faremo Sara, ce la faremo’? E lei, strizzando l’occhio e alzando il pollice, rispondeva ‘Certo che ce la faremo, papà, ce la faremo’. Il credente che è in me parte dalle medesime circostanze. Ragazza mia ci siamo affidati insieme alla scienza dei medici e allo sguardo di Dio. I medici si sono impegnati con grandissima professionalità, creando relazioni profondamente umane e sicuramente comunitarie. E il Buondio? Certamente non vorrà farsi battere dai suoi figli nella cura delle sue creature. Noi continuiamo a crederlo. Sul senso dell’esistere, dal punto di vista della malattia, l’accordo tra noi era totale. Non un mondo governato da un grande disegno, magari divino, tutto giustificato nelle sue ragioni ed esatto nei suoi ritmi. Se lo tengano gli svizzeri. A noi importa un mondo anche disordinato dove però ti senti accolto ed amato. Un Dio attento e appassionato: solo questo funziona».