I Quaranta giorni della Quaresima non vanno confusi con una quarantena, neppure al tempo del Covid-19. Sono giorni per riunire, non per separare. Sono per condividere la nostra vulnerabilità, nella convinzione che l’essere umano è ospite – non padrone – della vita di tutti. E la vita di tutti – compresa la nostra morte – è destinata all’ospitalità di Dio, che ci chiede semplicemente di non precluderla a nessuno. Lo spirito delle Beatitudini apre una via per la società civile.
L’illusione di diventare signori assoluti della vita non significa affatto averne più cura. L’assuefazione al pensiero di un dominio tecnico totale dell’esistenza, come se l’immunità perfetta dalla malattia e dalla morte fosse soltanto questione di tempo e di mezzi, ci rende ogni giorno più vulnerabili "dentro" (e anche "fuori"). La demoralizzazione comunitaria del principio-solidarietà, che cresce insieme con l’ossessione individuale del principio-autonomia, ci conduce rapidamente a varcare la soglia sottile che separa il passaggio dall’indifferenza irresponsabile («Non è un mio problema») alla paura incontrollabile («Si salvi chi può»). La dignità della vita umana condivisa, che cura le ferite, affonda con la nostra ossessione del benessere totale, che scarta i feriti. Che cosa sono il bene e il male, la verità e la menzogna, la giustizia e la prepotenza, l’ospitalità e la persecuzione, la comunità e la guerra, di fronte alla paura – vera o presunta – di rimanere senza cibo, senza pillole, senza smartphone?
Scambiare il legame comunitario con l’autonomia individuale non è stato un grande affare. I due si sostengono a vicenda nel coraggio, o affondano insieme nella paura. La nostra lotta contro l’avvilimento della vita umana piegata dalla diffusione epidemica della fame, della droga, della schiavitù – tutte malattie mortali – ne viene forse rinvigorita? Quando tutti possono fare qualunque cosa, della vita, senza riguardo per la comunità, la comunità non può fare più niente per sé stessa. E per noi.