Tante volte le ricorrenze sono solo un’occasione per sterili nostalgie. Non è questo il caso. Anzi, il primo anniversario del “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” testimonia l’attualità e insieme lo sguardo profetico del testo firmato ad Abu Dhabi.Era il 4 febbraio 2019. Una data che, almeno nelle intenzioni dei suoi protagonisti, dovrebbe segnare l’inizio di un diverso modo di avvicinarsi reciprocamente, di dialogare, di confrontarsi. Il Papa e il grande imam di Al-Azhar Ahamad al-Tayyib, lo scrivono chiaramente nella prefazione: il documento vuol essere un invito a tutte le persone «che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli». Ecco allora la richiesta che il testo faccia breccia nelle pur differenti culture, diventi menta-lità, venga letto e studiato nelle scuole. Cosa che, a varie latitudini, si è effettivamente verificato.

«Il coraggio di accettare l’alterità, nella diversità, riconoscendo che, pur essendo diversi, siamo fratelli e sorelle»: è quanto richiede il Documento sulla fratellanza umana firmato esattamente un anno fa da Papa Francesco e dal Grande imam di al-Azhar con il patrocinio del principe ereditario di Abu Dhabi. Lo ho rimarcato il prefetto del Dicastero per la comunicazione, Paolo Ruffini, intervenendo alle celebrazioni del primo anniversario della storica dichiarazione svoltesi nella capitale degli Emirati Arabi Uniti martedì 4 febbraio.

In precedenza, nel pomeriggio di lunedì 3, i membri del «Comitato superiore per l’attuazione del Documento» avevano incontrato la stampa, informando sulle attività svolte dal momento della sua istituzione, il 19 agosto scorso, fino alla recente proposta rivolta all’Onu il successivo 5 dicembre di indire una Giornata mondiale della fratellanza.

A fondamento del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune — di cui abbiamo la gioia e ci assumiamo la responsabilità di celebrare il primo anniversario — ci sono preghiera intensa e sincera, riflessione ponderata e condivisa, impegno convinto e profetico. Lo si evince dal singolare peso spirituale che il documento esibisce e, di conseguenza, dal peso culturale e politico — nel senso alto della parola che c’invita a essere cittadini della cosmopoli che si va non senza fatica e resistenze delineando all’orizzonte — che in prospettiva il documento riveste.

Non si tratta, dunque, d’un atto diplomatico congiunturale, ma di una dichiarazione solenne che esprime una presa di coscienza nuova e un impegno di significato strategico e universale da parte di due istituzioni rappresentative di una porzione considerevole, anzi della porzione la più ampia e diffusa, della famiglia umana.

Intervista a Ciriaco De Mita

Incontro Ciriaco De Mita il 31 gennaio, festa di san Giovanni Bosco, e alla fine della nostra conversazione l’ex-presidente del consiglio, 92 anni da compiere proprio due giorni dopo, mi dice: «La Chiesa dovrebbe ripartire dall’educazione, come facevano i salesiani, aprire scuole ma non per l’insegnamento, bensì per l’educazione, cioè per quell’arricchimento globale della persona nel segno della libertà. L’insegnamento rischia spesso di diventare qualcosa che cala dall’alto, soffocando la libertà».

Tutto il resto della nostra chiacchierata è in qualche modo riassunta in questa battuta finale, perché è la libertà il cuore dell’avventura umana e quindi anche della politica. Gli chiedo di Sturzo, l’anno appena trascorso ha segnato il secolo dal famoso Appello ai liberi e forti, ma lui parte dalla sua esperienza personale e la riflessione diventa un viaggio nella memoria:

L’ininterrotta scia di violenze e di guerre che inquinano il mondo di oggi - quasi una "guerra mondiale" in briciole... – appare inarrestabile, al punto che l’opinione pubblica mondiale, e gli stessi governi, appaiono rassegnati a questa escalation, che caratterizza gran parte del mondo e che, continuando di questo passo, finirà con il produrre più morti e distruzioni di quelle, pur immense, della Seconda guerra mondiale. Ciò che colpisce è la diffusa rassegnazione – delle persone, degli stessi governi – a ciò che appare inevitabile, ma tale non è.

Le armi di distruzione di massa che circolano ormai, quasi liberamente, in tutto il mondo, non sono prodotte dalle varie tribù, dai modesti gruppi di insorti, da piccole e grandi "bande" di assassini e di predatori. Se le stesse contese che oggi turbano il mondo e lo rendono sempre più insicuro (con pesanti ripercussioni soprattutto sulle popolazioni civili), avvenissero con le mazze e i coltelli, il numero delle vittime e l’aumentare delle distruzioni di beni pubblici e privati sarebbero immensamente inferiori agli attuali.

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