E’ questo il titolo del discorso che l’Arcivescovo Mario ha pronunciato in occasione della scorsa solennità del nostro santo patrono Ambrogio.
Un titolo che mi sembra decisamente adatto per questo editoriale che apre un nuovo anno. Un nuovo anno porta con sé inevitabilmente un rimando al futuro, al domani, alle cose che dovranno accadere, rispetto alle quali la nostra fede cristiana ci offre uno sguardo non scontato. Uno sguardo positivo che si fonda sulla “speranza per una vita che non finisce nel nulla e per una sollecitudine che non lasci nessuno da solo, neppure di fronte alla morte”.
Diversi sono gli ambiti di futuro che l’Arcivescovo Mario tocca nel suo discorso. Anzitutto quello sulla denatalità che colpisce paradossalmente i Paesi dove sono possibili le migliori condizioni di vita e che fa chiedere: “Perché in Europa è diffusa una mentalità così ripiegata su di sé, da spaventarsi della vita e da rassegnarsi al declino? La nostra società ha forse deciso di morire?”. E così sono belle le parole di gratitudine e di incoraggiamento rivolte a quanti si curano dei bambini, in particolare quei nonni e nonne “che ringiovaniscono con i loro nipotini”, ma anche a quanti hanno il coraggio di accogliere attraverso l’affido e l’adozione figli non loro e che sono amati ed educati come fossero propri.
Altro ambito di futuro su cui Delpini si sofferma è quello della “società plurale” che da sempre Milano ha promosso e favorito. Una società che “oggi più che in altri tempi, ci mette di fronte alla sfida della convivenza di persone che vengono da molte parti del mondo portando le loro capacità, le loro attese, i loro bisogni, la loro cultura e mentalità, talora le loro miserie, i loro traumi e le loro sofferenze, le loro virtù e i loro vizi”. Di fronte a questo fenomeno mondiale - e non certo transitorio - l’Arcivescovo stigmatizza ogni comunicazione “sbrigativa e partigiana” che arriva a dividere le nostre comunità tra chi vuole accogliere e chi vuole respingere. Auspica che si sviluppino invece serie occasioni di confronto con tutti i Paesi - in particolare quelli europei - che necessitano di elaborare una visione di quello che sta succedendo per capire quale speranza si possa condividere per vivere il nostro tempo con coraggio e serenità. “Non abbiamo certo la pretesa di proporci come maestri. Siamo invece disponibili a condividere quel percorso che tutta la società civile, libera da impraticabili nostalgie e da paure irrazionali, potrebbe percorrere per confermarsi saggia e fiera di dichiarare: benvenuto, futuro!”.
In conclusione Delpini invita non tanto ad un ottimismo retorico e velleitario, ma a tornare alla visione dell’uomo e della storia proposta dall’umanesimo cristiano. Una visione che ci permette di guardare alla persona nella sua libertà e nella sua responsabilità nei confronti di Dio, degli altri e del pianeta. Una visione che è vocazione alla fraternità e dunque rimando alla imprescindibile dimensione sociale della vita umana.
Crediamo nel futuro, gli diamo il benvenuto perché siamo uomini e donne di speranza che viene descritta da un antico aforisma: “Non si può dire della speranza che essa ci sia o non ci sia. Essa è come la terra alle origini che non aveva strade; è solo quando gli uomini camminano insieme, verso una stessa direzione, che nasce una strada”.
Il Natale di Gesù: la decisione di Dio di venire a stare con l’uomo, affinché l’uomo decida di stare accanto al suo simile
Non è proprio consueto che il Natale sia abbinato ad una immagine che parla più di paura che di serenità, di angoscia piuttosto che di tenerezza. La retorica commerciale ci ha ormai resi avvezzi ad un “vogliamoci bene”tanto stucchevole quanto falso. Già, perché non è vero che dopo 2000 anni l’umanità abbia imparato a volersi più bene, non è vero che il dolore sia stato cancellato. Racconta un antico apologo della spiritualità ebraica che un giorno un discepolo irruppe nella stanza del proprio rabbi per annunciargli con entusiasmo che era venuto il Messia. Il rabbi aprì la finestra, guardò fuori e poi rivolgendosi al discepolo gli disse con amarezza: “Vedo ancora gente che è stremata dalla fatica, uomini e donne sfruttati, potenti corrotti che rendono il mondo sempre più ingiusto, … No, il Messia non è ancora arrivato. Lo dobbiamo ancora aspettare”.
A noi cristiani invece il Natale di Gesù chiede di credere all’incredibile. Che malgrado le apparenze, un seme di novità e di giustizia è stato piantato nella terra insanguinata dell’uomo. E che tale seme, tale germoglio di speranza consiste nell’evento inimmaginabile di un Dio che i cieli non possono contenere e che si “restringe”fino a farsi piccolo come un bambino. Un Dio che non disdegna di sperimentare alcuna vicenda umana, come la persecuzione immotivata, la fuga dalla propria terra, l’ansia di essere migrante, straniero, profugo.
E’ di questo che parla l’immagine che abbiamo scelto di distribuire in occasione delle benedizioni delle case. In queste settimane stiamo bussando alle porte della parrocchia per portare un saluto, un augurio, una preghiera e ricordare anche ai concittadini meno attenti che dopo il Natale di Gesù nulla è stato più come prima. L’immagine ci parla di una speranza che trova la sua radice non in un esercizio di forza e di potenza, ma semmai in un esercizio di condivisione, di solidarietà, di prossimità.
Questo è il Natale di Gesù: la decisione di Dio di venire a stare con l’uomo, affinché l’uomo decida di stare accanto al suo simile. Accogliere il mistero del Natale significa diventare seminatori di speranza facendoci sempre più vicini a chi ci sta accanto. Senza la pretesa di guarire tutte le sue ferite e di asciugare tutte le sue lacrime, ma offrendo un cuore che vede, un cuore capace di compassione.
Ma – come dicevo – bisogna decidere, bisogna mettere in gioco la propria libertà nel lasciarsi affascinare dalle sorprese di Dio. Erode non lo fece e la sua follia portò alla strage degli innocenti per scappare dalla quale la Sacra Famiglia fu costretta a fuggire in Egitto.
Pensiamo solo per un istante a quale grande potere abbiamo tra le mani: accogliere Gesù per diventare seminatori di speranza o rifiutarlo e diffondere indifferenza o ostilità.
Pubblichiamo la nota apparsa sul settimanale della Parrocchia della Resurrezione in merito alla cena di autofinanziamento della ONG Mediterranea Saving Humans ospitata presso il salone parrocchiale
Mentre scrivo queste brevi note a Roma si sta concludendo il Sinodo dei Vescovi, cioè una assemblea speciale dedicata alla situazione pastorale, umana e ambientale di quell’immenso territorio che è l’Amazzonia. Parliamo di un’area che abbraccia più della metà del Brasile e tocca diversi altri Paesi dell’America del sud. Vi abita una popolazione di circa 34 milioni di abitanti, di cui oltre tre milioni sono indigeni appartenenti a più di 390 etnie.
La Chiesa si sente responsabile della evangelizzazione di quelle popolazioni, specie degli indios, spesso dimenticati e senza la prospettiva di un avvenire sereno, anche a causa dello sfruttamento selvaggio della foresta amazzonica. Per questo i Vescovi convocati stanno riflettendo da un lato sulla emarginazione sociale, economica, culturale e religiosa delle popolazioni di quelle terre, dall’altro sulla crisi ecologica di un’area che rappresenta una immensa risorsa del pianeta.
Ma perché un evento come il Sinodo per l’Amazzonia dovrebbe interessare e intrigare anche noi cattolici del “vecchio mondo”? Non ci sono problemi più urgenti da affrontare come la scristianizzazione sempre più avanzata dei nostri territori, l’abbandono della pratica religiosa dei più giovani, la difficile convivenza con popolazioni appartenenti ad altre esperienze religiose a seguito del fenomeno migratorio degli ultimi decenni?
In realtà, il Sinodo per l’Amazzonia ci parla di un mondo di frontiera, certo, ma che può illuminare il nostro modo di essere Chiesa Cattolica, cioè universale, impossibilitata a chiudersi a riccio sul proprio ombelico e sulle proprie problematiche. Ci parla di una periferia del mondo che ha qualcosa da dire a tutto il mondo. Amazzonia, terra lontana solo sulle mappe, dalla cui sopravvivenza noi tutti dipendiamo per respirare. E non solo per l’ossigeno che produce, ma anche nel riscoprire e vivere relazioni nuove, nell’ottica di una ecologia integrale.
Il Sinodo per l’Amazzonia potrà insegnare molto anche alle nostre chiese antiche (e talvolta anche vecchie) sia dal punto di vista del contenuto, sia del metodo. Anzitutto del metodo: questo Sinodo è stato preparato attraverso un coinvolgimento ed un ascolto capillare che ha riguardato migliaia di persone. A testimonianza di quella che papa Francesco chiama “conversione sinodale”, cioè un modo di vivere la chiesa nella logica di un “camminare insieme”.
Sul piano dei contenuti ciò che è in gioco non è solo una questione regionale, ma il destino ecologico dell’intero pianeta, oltre che la dignità e i diritti di coloro che vi abitano, specialmente dei popoli indigeni. Popoli oggetto di sfruttamento e violenza che, dopo avere custodito per millenni l’equilibrio ecologico di quelle terre, ora sono vittime della sconsiderata ricerca di petrolio, gas, legno, oro, … da parte di attori economici esterni al territorio.
Ma il Sinodo non si è accontentato di ascoltare il grido della terra e dei poveri: ha voluto riflettere su come la Chiesa può e deve assumere un volto amazzonico e svolgere un ruolo profetico. Una Chiesa capace di riconoscere che in tutte le culture sono presenti quelli che i padri apostolici chiamavano “semi del Verbo”, cioè elementi positivi di preparazione al Vangelo di Gesù. Una Chiesa capace di vivere una reale “inculturazione” cioè di dire e celebrare la fede cristiana attingendo alla sensibilità di ogni tradizione culturale. Una Chiesa profetica che fa propria l’opzione preferenziale per e con i poveri, e per la cura del creato.